Quando il cristianesimo cominciò a diffondersi, prima nel mondo ebraico (da cui traeva la propria origine) e poi in quello greco, il problema fondamentale cui si trovò di fronte fu dire cose nuove con un linguaggio vecchio. Il messaggio di Gesù di Nazaret spezzava una tradizione che sembrava acquisita, sia per gli ebrei che per i greci. E Paolo di Tarso, nella sua lucidità, lo comprese subito, descrivendo la propria predicazione come “scandalo per i giudei e follia per i greci”.
Il messaggio cristiano (il figlio di dio si è incarnato, è morto ed è risorto) doveva elaborare un linguaggio comprensibile per esprimersi con verità dentro culture per le quali il tutto sembrava folle o scandaloso. Non fu facile. Le eresie dei primi secoli furono espressione della complessità di questa operazione: dire un messaggio nuovo in un linguaggio vecchio; anzi, i dibattiti, gli errori, le elaborazioni, gli scontri furono necessari proprio per questo. E la fede cristiana trovò nel “Credo” la sua espressione, che si ritenne per secoli corretta.
Dopo 2000 anni, la nuova condizione mondiale (politica, sociale e religiosa) sembra imporre una nuova comunicazione della fede: oggi l’annuncio cristiano deve fare i conti con nuovi linguaggi: di un Oriente sempre più vicino, di filosofie dalle tradizioni antiche che si rinnovano, del mutamento scientifico e tecnologico, di condizioni sociali e politiche in trasformazione.
E’ esattamente quel che dovettero vivere i primi cristiani. In tutto questo, l’immobilismo del dogma (che per secoli ha permesso la resistenza del credere comune) è oggi diventato un impedimento al dialogo e persino a una comunicazione comprensibile, semplicemente perché la lingua dell’uomo è mutata. La pretesa di Paolo, di “farsi tutto a tutti” deve dunque necessariamente passare per un ripensamento lungo, coraggioso e certamente doloroso del linguaggio del credere.
C’è nuovamente bisogno di eresie, perché la verità sia nuovamente al centro. Ancora Paolo, nella Prima ai Corinzi diceva: E’ necessario che sorgano eresie, affinché vengano alla luce coloro che superano la prova. Nelle epoche di grande trasformazione, solo gli eretici (non la tranquillità di una fede imborghesita) colgono seriamente “il caso serio” del credere e del non credere. Fu così per Lutero, per Valdo, per Francesco d’Assisi, persino per Tommaso d’Aquino (che prima rischiò il rogo e poi venne trasformato in campione dell’ortodossia).
Ma oggi sembra che l’eresia non abbia più spazio. Tutti cercano di essere ortodossi o almeno fingono di esserlo. La gran parte, invero, tace. In una Chiesa in cui il più “eretico” sembra essere il Papa, non significa forse che il dibattito (poiché “eresia” significa questo!) è spento?
Quando fu eletto papa Francesco, scrissi che speravo in un papa capace di ascoltare. E sono stato esaudito. Ora abbiamo un papa che sa ascoltare; la domanda diventa: abbiamo qualcosa da dirgli? Forse non è un caso che i suoi più fecondi interlocutori, fino a oggi, siano stati proprio i non credenti.