Thomas More
(1478-1535), Lettera alla figlia Margaret, scritta dalla Torre ove era imprigionato. Da Consigli per l’anima, Piemme, pag 180-181
Margaret, figlia mia, noi due abbiamo parlato di questa cosa più di due o tre volte […] e io ti ho anche risposto che i questa faccenda, se fosse possibile per me agire in modo da far contento il re, e insieme non offendere Dio, allora non c’è uomo che avrebbe pronunciato il giuramento più volentieri di quanto lo farei io, come colui che si considera profondamente legato alla Maestà del Re, più di chiunque altro gli stia accanto, per la sua straordinaria generosità, in molti modi dimostrata e dichiarata. Ma, stando alla mia coscienza, non posso assolutamente farlo e, per illuminare la mia coscienza sulla questione, non mi sono fermato alla superficie, ma per molti anni ho studiato e considerato con cognizione di causa e non ho potuto finora vedere o sentire, né penso che mai vedrò o sentirò, una cosa che potesse indurre la mia mente a pensare diversamente da come penso.
Non c’è alcuna via d’uscita, ma Dio mi ha messo alle strette, per cui devo o mortalmente offenderlo o sopportare in questo mondo qualunque danno egli permetterà che cada su di me […]. Su questo punto, come ti ho detto anche in passato, anche prima di venire qui, non ho tralasciato di considerare e di prevedere il peggio o il massimo che mi potesse in ogni caso accadere. E, pur se ben conosco la mia fragilità e la naturale debolezza del mio cuore, tuttavia se non fossi stato fiducioso che Dio mi avrebbe dato la forza di sopportare tutto piuttosto che offenderlo giurando empiamente contro la mia stessa coscienza, puoi stare ben sicura che non sarei finito qui. E poiché in questa questione io mi rimetto solo a Dio, poco mi importa che gli uomini la chiamino come loro garba, e dicano che non è coscienza ma uno sciocco scrupolo. Tuo padre.