Tarcisse Shibangu vescovo e teologo (Zaire)
Da Le sfide missionarie del nostro tempo, Milano, 1994, pagg. 32ss.
Ogni cultura è un linguaggio. Anche la cultura e la teologia cristiane inevitabilmente passano attraverso il linguaggio. I contenuti non sono separabili dal linguaggio che li esprime. Questo sembra, ormai, un dato assodato. Ma le conseguenze di queste affermazioni non sono per nulla semplici, e non sono evitabili: il linguaggio della fede non fa eccezione. Deve coniugarsi con la cultura che lo esprime. Il testo seguente è una delle possibili messe a tema. E quella africana è solo una delle possibili esemplificazioni.
“Si dice molto spesso che dobbiamo cominciare ad esprimere il messaggio evangelico, la Buona Novella data da Dio, in un linguaggio accessibile a tutti. Ma questo non è che il primo gradino dello sforzo che dobbiamo compiere se vogliamo evolvere verso ciò che accadrà in futuro. Bisogna andare oltre la semplice traduzione. E’ stato … pubblicato un catechismo universale della Chiesa. Non basterà averlo tradotto in tutte le lingue per pensare di aver compiuto un’opera di inculturazione in Africa. Bisognerà andare oltre.
La Chiesa ci chiede di arrivare fino al livello dell’elaborazione teologica, che dovrà essa stessa realizzarsi in una formulazione africana della fede, cosa ben diversa dalla semplice traduzione.
Si dovrà compiere uno sforzo di intelligenza, di interpretazione della fede e di tutte le espressioni della vita cristiana, naturalmente secondo le norme della Chiesa. Tutto questo ci porterà alla fine a esprimerci nelle nostre lingue, con il genio proprio delle nostre lingue.
E’ già stato detto più volte: la teologia africana apparirà definitivamente, apparirà interamente, quando sarà espressa nelle lingue africane. Non si verifica forse questo anche quando consideriamo la storia dell’Europa? Per molto tempo tutta la teologia si è fatta in latino. Ad un certo punto si è cominciato ad esprimerla in altre lingue particolari: prima nelle lingue neolatine… e poi nelle lingue germaniche. E siccome le lingue germaniche sono arrivate ultime, si ha l’impressione che la teologia in quelle lingue sia più profonda e più originale di quella espressa nelle lingue neolatine. Questo non è sempre vero, ma quel che è vero è che una lingua nuova ha cominciato a cogliere la dottrina della fede e ad esprimerla col proprio genio. Esprimendola con il proprio genio, essa ha portato elementi nuovi. […]
Qualche cosa di analogo avviene anche oggi. E’ certo che l’Africa vedrà il giorno in cui i teologi e i filosofi si esprimeranno in lingua africana. Così il genio africano porterà a compimento l’inculturazione. Questa meta costituisce oggi un appello per la missione, affinché il pensiero teologico possa avere un grande spazio nella Chiesa. … e noi possiamo sperare che in quel momenti e per parecchi secoli il cristianesimo sarà a casa sua in Africa…”
Penso che uno dei problemi dell’ “idolo” globale sia proprio la presunta universalità delle lingue, che chiamiamo “globalità” e che invece è una forma di Babele al rovescio. Ma il punto è quello che scrivevo qualche giorno fa: non ci si smuoverà dal problema fintanto che non saranno i teologi africani stessi a esportarsi e ad esportare forzosamente pensieri e idee (con pessimi risultati). La pretesa di dover parlare a tutte le latitudini è un mito pieno di vanità e di orgoglio. Mentre una teologia africana dovrebbe servire all’Africa, in primis, e basterebbe che servisse anche solo ad essa.
"Mi piace""Mi piace"
Ti rimando una domanda (a questo punto non posso evitarlo): mentre sono perfettamente d’accordo che la pretesa di una lingua unica per parlare del mistero è un’aberrazione babelica, come la mettiamo con formulazioni del tipo: lingua “ufficiale” della Chiesa…, o con l’idea che una formulazione del dogma possa pretendersi assoluta. Sembra una questione di lana caprina, ma come si può immaginare, è invece una delle faccende per cui “ne va”…!
"Mi piace""Mi piace"
Assolutamente d’accordo. Ritengo che storicamente si sia fatta un po’ troppa confusione tra convenienza e principio. La lingua di uso liturgico è quindi passata ad essere, da mero strumento di utilità (per ovviare alle differenze e garantire una comunanza che sia non discriminatoria e non preferenziale rispetto ai vari idiomi) a lingua ontologicamente “ufficiale” in sé e per sé. E la formulazione generalizzata, da strumento di comunione che preserva dalle differenze impazzite, è divenuta assassina della differenza in sé. I dogmi e il latino non hanno niente di male in se stessi, ma il fatto di radicalizzarli al di fuori del contesto più ampio del servizio alla fede, da cui nascono, origina quelle mostruosità di cui purtroppo siamo tutti testimoni.
"Mi piace""Mi piace"