Riprendo la prima parte dell’intervento di padre Sorge, che ho riportato ieri, per soffermarmi un poco sulla questione della collegialità nella Chiesa. Quella che segue è una riflessione ad alta voce; una serie di domande che faccio innanzitutto a me stesso. Non certo una riflessione “conclusiva”, piuttosto un punto di partenza.
Innanzitutto occorrerebbe chiarire bene che cosa si intende. Mi spiego meglio (o almeno spero): se è chiaro cosa significhi che una decisione viene dall’alto, non è altrettanto chiaro cosa si intenda per “spinte dal basso”. Credo che molte delle ambiguità che le (storiche) comunità di base e le (pretese di) collegialità nelle decisioni si sono portate dietro dipenda proprio da questa non risolta questione.
Poniamola provocatoriamente (ed esageratamente, ma forse serve per intenderci): se non decide il Papa, chi decide? Se non decide il parroco, chi decide? Si vota? Si tira a sorte (non insegnano così proprio gli Atti degli Apostoli in una delle decisioni più importanti della Chiesa primitiva: chi debba sostituire Giuda nel numero dei 12!)? Si lascia la decisione a un gruppo di probi viri? Si attende un’illuminazione comune dello Spirito Santo?
La questione delle decisioni nella Chiesa è più complessa di quello che una polemica futile e ormai, a mio parere, stantia, lascia intendere. Smettiamo di raccontarcela:
– Se non è vero che il Papa è infallibile.
– non è vero neppure che “basta ascoltare il popolo di Dio per udire la voce di Dio”.
– E non è vero che “un consiglio eletto democraticamente garantisce meglio di un singolo la coerenza con l’annuncio evangelico” (le democrazie “civili” ne sono ampia prova).
– Non è vero che il caso (la sorte!) sia automaticamente segno della volontà di Dio (neanche dopo una notte di preghiera).
– Non è vero che una comunità che va d’amore e d’accordo garantisce di per sé la fedeltà cristiana (potrebbe garantire semplicemente la propria tribalità, e sappiamo quanto spesso accada!).
Di tutte queste situazioni potremmo fare ampi esempi di devianza, di incapacità di risolvere i problemi, di ricostituzione di strutture di potere…. Purtroppo, la democrazia, nella Chiesa, non garantisce la fedeltà al Vangelo più della dittatura; la massa non garantisce una maggiore santità (neppure per addizione) rispetto ai singoli.
Credo, invece, che questa garanzia appartenga alla Chiesa/singoli/popolo proprio in quanto pluralità, varietà, “sinfonia” delle presenze e delle storie. Il papa non è (e non può pretendersi) più o meno fedele alla tradizione rispetto al comune laico, per il semplice fatto che entrambi sono uomini feriti, figli di una storia e di una interpretazione inevitabilmente personale del Vangelo. La grazia (anche quella sacramentale) non è una forma di garantismo (somiglierebbe, in questo caso, fin troppo ai poteri mondani)!
Perciò credo che il futuro delle comunità e dell’annuncio cristiano stia in una scelta precisa non di eliminazione o rovesciamento delle autorità, ma nel riconoscimento del valore (vero e non solo pronunciato) della varietà: meno dettami e più condivisione di idee (e di pratiche); meno dogmi e più ascolto vicendevole, nel rispetto dei ruoli e dei carismi. Non era così che Paolo di Tarso voleva le sue comunità?
Dall’alto o dal basso, dalle gerarchie o dal popolo di Dio… credo che la questione vera sia il metodo, il “come” si arrivi a prendere le decisioni. La collegialità è molto pièu della democrazia (non necessariamente principio veritativo o inclusivo e quindi giusto. Peò la collegialità ci insegna il metodo con il quale condividere idee e pratiche nell’ascolto di tutti e quindi necessariamente nel rispetto di tutti, anche dei ruoli. Certo che qualcuno alla fine deve decidere, ma il metodo diventa fondamentale per dire la bontà, anche evangelica, della decisione.
La collegialità non è quella ministerialità che Paolo voleva per le sue comunità come metodo di cammino? Le lettere di Tito e Timoteo non sono il tentativo di annullare quella ministerialità e collegialità? La storia si ripete.
Non possiamo rinunciare a quella pratiche evangelica di collegialità che il Vaticano II ci ha ricordato.
Mi preoccupa non chi prende le decisioni, ma come arriva a prenderle, se rispetta un metodo o se cerca di cancellarlo, come nelle lettere di Tito e Timoteo.
E’ possibile aprire questi spazi di collegilità incominciando dalle picole realtà ecclesiali e invocarlo nelle grandi?
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Grazie della riflessione, Emanuele. Quello che io temo è proprio la “ripetizione” della storia. Per evitarlo, occorrerebbe proprio quel che tu dici: un buon metodo. Ma, quel che temo, è che in molti lo invocano e pochi lo strutturano. La collegialità, di per sé, è a mio parere un’evocazione ancora troppo vaga per essere definita “metodo”. E la mia domanda (è una provocazione, naturalmente!) non è semplicemente se la collegialità è “buona”, ma in che modo può essere esercitata fruttuosamente (ossia in un modo che la renda davvero “buona”).
L’evocazione paolina della “comunione carismatica” si è scontrata duramente con le strutture concrete delle comunità. E le lettere a Tito e Timoteo, ho paura che siano state le conseguenze di una “comunione” che, per resistere, aveva necessità di autorità.
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